Ci
voleva un pubblico ministero con gli attributi nel nome e
nei fatti per far esplodere il bubbone di un fenomeno sgradevolissimo,
per diversi aspetti legato alla fotografia. Con uno dei peggiori
neologismi del nuovo secolo, “vallettopoli”, si
è indicata l’elevazione a sistema pseudoindustriale
di un mestiere interpretato e svolto nel peggiore dei modi,
quello del paparazzo. La stampa, dopo l’atteggiamento
vago e temporeggiatore della prima ora, è poi passata
a dipingere a tinte forti i fatti di cronaca tornati in evidenza
nella seconda decade del mese scorso (scrivo questa pagina
il 14 marzo), mancando a mio avviso di effettuare alcune fondamentali
distinzioni. Non è stato rilevato, tanto per iniziare,
che il fatto di fotografare personaggi pubblici nella pubblica
piazza non è reato, perché tra i due diritti,
parimenti tutelati, all’informazione e alla riservatezza,
in caso di personaggi pubblici vince il diritto all’informazione.
E sempre in linea di principio, se ho il diritto di vendere
le foto a un editore che me le paga una certa somma, sono
altrettanto libero di proporre l’acquisto al soggetto
da me ritratto, rinunciando ovviamente a qualsiasi ulteriore
diritto su tali foto. E, senza volermi sostituire al giurista
o tanto meno al giudice, non riesco a scorgere il reato di
estorsione in tale offerta perché mancano degli elementi
oggettivi della fattispecie criminosa, ovvero la minaccia
di un danno ingiusto o il perseguimento di un ingiusto profitto.
Se ho il diritto di pubblicare le foto vuol dire che l’ordinamento
non vi ravvisa un danno ingiusto per la persona ritratta.
E non perseguo un ingiusto profitto se cerco di venderle al
vip, anziché all’editore, per una somma che ritengo
equa compensazione del mancato guadagno derivante dalla pubblicazione.
Se il personaggio non accetta l’offerta, la foto viene
pubblicata e non succede nulla a livello legale. Se il personaggio
accetta e il fotografo emette regolare fattura, tutto è
nella norma. Ciò vale, ripeto, in linea di principio.
La realtà dei fatti vede all’opera individui
senza la minima etica che nulla hanno a che vedere con il
giornalismo, perché nessun vero giornalista fotografo
si pone la domanda se vendere il proprio lavoro all’editore
o al soggetto ritratto. E quindi non sono degni della tutela
offerta dall’articolo 21 della Costituzione in tema
di libertà di pensiero. Sono gaglioffi dediti allo
sfruttamento di fanciulle pronte a tutto, parassiti di personaggi
pubblici con le tasche ben gonfie e una reputazione (immeritata,
alla prova dei fatti) da difendere. Una vera organizzazione
volta a creare le situazioni più scabrose e pruriginose,
vere e proprie trappole in cui anche un santo cadrebbe con
tutte le scarpe, figuriamoci un calciatore stordito dai soldi.
E poi probabilmente l’offerta del conseguente “reportage”
all’ignaro attore non avviene secondo le regole del
commercio più leale, e gli eventuali compensi pagati
non vengono dichiarati al fisco, somme ingenti che passeranno
nelle “lavatrici” più disparate. Qui è
il più evidente marciume radicale. Non c’è
niente di quell’atmosfera romantica, un po’ alcolica
e fumosa, che circonda un vero paparazzo, in attesa della
preziosa telefonata dell’amico cameriere, la soffiata
su una diva di Hollywood che balla ubriaca sui tavoli di un
bar di via Veneto, la corsa con la moto, le fotocamere svolazzanti
appese al collo, lo scatto decisivo, le guardie del corpo
che cercano di ghermire fotografo e fotocamere, la fuga e
tutto il resto che ben conosciamo.
Quello del paparazzo, a ben vedere è un mestiere per
certi versi affascinante, vissuto senza sosta e senza paura
da personaggi leggendari come Barillari e il compianto Secchiaroli,
non da semplici schiacciabottoni né da parassiti e
truffatori. Ma non punterei l’indice accusatore verso
i fotografi che si prestano a tali operazioni criminose, né
verso gli ingenui e goderecci vip beccati con le mani nella
marmellata, verso i quali non provo in verità alcuna
pietà in quanto spesso figli e conniventi del sistema
di cui si dichiarano vittime. Il vero guaio è che tutta
l’architettura si regge in piedi perché quelle
foto hanno un valore commerciale spropositato. E se lo scatto
di una povera modella che sniffa viene pagato milioni di euro
è perché milioni di pecore ogni settimana vanno
in edicola e riempiono i loro grandi interstizi neuronali
con frammenti di vita altrui che vorrebbero per sé,
fotogrammi di un mondo deificato dal sistema, innalzato a
modello, criticato e invidiato dal popolo, ma imitato e inseguito,
virtualmente vissuto al posto del proprio. Questo accade quando
un mezzo potente finisce nelle mani sbagliate. La fotografia,
forte, immediata, essenziale, diretta, perde il suo valore
di espressione artistica, le viene sottratto in questo triste
contesto il ruolo principe di mezzo di divulgazione culturale,
viene abbassata a merce di scambio, a leva del ricatto, a
specchio delle brame più effimere. |