Se
fossimo nati da qualche famiglia aristocratica francese, tedesca
e soprattutto inglese di due o tre secoli fa, avremmo probabilmente
completato la nostra preparazione culturale con un fantastico
viaggio nel nostro Bel Paese: il Grand Tour. Era un itinerario
formativo che poteva durare anche diversi anni, per tal motivo
appannaggio delle classi più agiate. Tornare in patria con
il bagaglio culturale che l'esperienza italiana regalava costituiva
un biglietto da visita paragonabile a un master nella migliore
università del mondo. Il Tour si snodava attraverso i luoghi
che maggiormente rappresentavano la cultura classica romana
e rinascimentale. Roma, quindi, ma anche Venezia, Firenze,
Bologna, Napoli e la Sicilia. L'Italia divenne, è il caso
di dire, la meta turistica per eccellenza e anche per finalità
commerciali si alimentò una vena artistica che consentiva
ai rampolli viaggiatori di tornare alle proprie latitudini
con dei souvenir: prima i pittori (Batoni, Canaletto, Piranesi.),
poi, a partire dalla metà del XIX secolo, i fotografi (cito
Alinari per tutti). I viaggiatori dell'epoca non erano dotati
di macchina fotografica e, per assecondare la loro richiesta
di "appunti visivi" meno soggettivi di un dipinto, sorsero
numerosi atelier fotografici, gestiti dai primi professionisti
dell'immagine. Situati soprattutto nelle principali città
d'arte, diedero corpo, nei decenni successivi, ad archivi
spontanei di qualità e valore inestimabili. Presto ci si accorse
delle potenzialità del nuovo mezzo e già nell'Ottocento furono
indette campagne fotografiche, sia in Europa che oltreoceano,
per documentare il territorio con le finalità più diverse.
Un fenomeno che non si è arrestato nel corso del Novecento,
anche se con un diverso spirito, più aperto, per quanto possibile,
alle individualità dei singoli fotografi. Vale a titolo di
esempio la Farm Security Administration, l'agenzia americana
sorta nel 1937 per documentare, anche attraverso la fotografia
paesaggistica, gli effetti della recessione nel settore agricolo
centro-meridionale seguita alla crisi del 1929. Alla campagna
parteciparono circa trenta fotografi tra cui Berenice Abbott,
Walker Evans, Dorothea Lange. Arrivando fin quasi ai giorni
nostri, ricordiamo la Mission Photographique de la D.A.T.A.R.,
durata un quinquennio (1984- 1988) e voluta dal governo francese
per documentare i mutamenti del paesaggio transalpino. Unico
italiano chiamato a partecipare, Gabriele Basilico, esemplare
interprete della nostra epoca. L'iniziativa ha fortunatamente
avuto eco anche in Italia, ma si tratta di ricerche che non
sono arrivate a colpire l'immaginazione dei fotoamatori che
al tempo stesso costituiscono la fetta numericamente più consistente
del popolo dei fotografi e, grazie alla libertà da vincoli
di committenza, la fonte più pura e abbondante di creatività.
Oggi c'è un diffuso quanto inconfessato istinto di fuga che
porta i fotografi per diletto a orientare i propri obiettivi
altrove. Talmente forti sono il disgusto per lo scempio e
l'incapacità di trovare un senso ai repentini e inarrestabili
mutamenti del territorio, in particolare quello urbano, che
la fotografia di paesaggio punta quasi esclusivamente a ritagliare
gli ultimi spazi di natura privi del minimo manufatto. Si
potrebbe anche essere d'accordo. Se "l'unico suono che cent'anni
fa poteva prodursi davanti all'apparecchio fotografico era
quello del vento" (Robert Adams), i fotografi paesaggisti
d'oggi fanno una gran fatica a percepire il suono dello scatto,
soffocato dal rumore di fondo della civiltà. Il fotoreporter,
compreso lo "street-photographer", si sente a suo agio nel
caos e cerca nel rumore e nel moto l'istante decisivo di bressoniana
memoria; il fotografo di paesaggio ha bisogno di un processo
di interazione con l'ambiente totalmente differente, basato
sull'attesa, sullo studio della luce, sulla regolazione maniacale
del mezzo fotografico, sul dialogo tra sé e ciò che lo circonda.
L'ambiente, così come è divenuto, identificato spesso con
cassonetti, tralicci e cartelloni pubblicitari, rende difficilissimo
questo processo. La prima conseguenza è la fuga, la seconda
è il venir meno della memoria storica. Sebbene si susseguano
iniziative istituzionali di catalogazione fotografica - che
tale amnesia dovrebbero evitare, ma che proprio in quanto
istituzionali creano una poco rassicurante memoria "ufficiale"
- credo che il fotoamatore debba riflettere sul proprio ruolo
nella fotografia di paesaggio contemporanea. Anche i fotografi
del Grand Tour, sebbene fotografassero per denaro, non potevano
non essere, in un'epoca pionieristica della fotografia, dilettanti
"dentro". E probabilmente il fascino di quelle immagini, oltre
che da un vago senso nostalgico, deriva anche da questa matrice
libera. Al di là del costruttivo esercizio che si pratica
nel cercare di rendere formalmente valido ciò che sostanzialmente
ed esteticamente è deteriore, la fotografia che si fa testimone
di fili elettrici e cantieri, ingorghi e semafori, profili
urbani e natura violata, non ha meno valore di un romantico
scorcio capitolino di fine Ottocento. E ne avrà moltissimo
quando ciò che oggi ci disturba sarà, appunto, solo un ricordo.
Se ordine e armonia sono estranei al nostro vivere quotidiano
non serve voltarsi dall'altra parte. È con la coscienza e
non con l'oblio che si restituisce un senso alle cose. |