Ci
sono uomini che non si può conoscere senza subire qualche
cambiamento. Henri Cartier-Bresson è uno di questi.
Anche chi non l’ha mai incontrato fisicamente, chi ha
solo incrociato la sua scia, lunga cinquant’anni e mille
capolavori, non può impugnare nuovamente la macchina
fotografica e fare le stesse foto di prima. L’impatto
estetico ed emotivo delle sue immagini è dirompente.
Spesso non è necessario conoscere i luoghi o le persone
immortalate. Fotografa scorci famosissimi – lo diventano
soprattutto dopo il suo passaggio - e luoghi anonimi, personaggi
celebri e illustri sconosciuti. Le sue immagini, anche prese
singolarmente, trasudano storie. Sono istantanee, nel senso
stretto del termine, dai caratteri talmente definiti, personali
e, per certi versi, costanti nel tempo, da far tacere chi
attribuisce al caso il loro valore.
Con tutta l’umiltà possibile, scorrendo i suoi
lavori, ci si può chiedere come e perché tanto
talento sia confluito in una persona sola. Il fotografo francese
è nato libero, quasi cento anni fa, e molte delle sue
scelte, compresa quella di fondare con Capa e Seymour l’agenzia
Magnum, sono frutto del suo spirito indipendente. Cresce affrancato
da qualsivoglia problema economico, in un periodo di grandi
rivolgimenti culturali, di tabù abbattuti. Si dedica
dapprima alla pittura, entra in contatto con i surrealisti,
con André Breton che gli infonde il senso dell’espressione
spontanea e dell’intuizione. Sono i primi ingredienti
di una ricetta esplosiva, i semi caduti sul terreno fertile
di un ventenne dalle potenzialità enormi. Inizia a
fotografare seriamente nei primi anni Trenta, con una fotocamera
di piccolo formato, una Leica. Non se ne separa mai, dando
vita ad una delle più spettacolari e commoventi alleanze
tra uomo e macchina. La tedesca a telemetro diventa, come
lui stesso ama definirla, l’estensione del suo occhio.
Nessun orpello tecnologico, quasi sempre il solo 50mm tra
sé e la realtà, nessuna ostentazione. Anzi,
del nastro nero per camuffare le troppo vistose parti argentate
della sua fotocamera. È decisivo passare inosservati
tra la gente, è decisivo cogliere il momento dello
scatto perfetto. Quella frazione di secondo in cui ti accorgi
simultaneamente del significato dell’evento che si sta
materializzando e dell’organizzazione delle forme che
a quell’evento stanno per dare la massima espressione.
Il fotografo francese dimostra di possedere la facoltà
quasi soprannaturale di previsualizzare i fatti. Gli esseri
che animano una scena, in movimento casuale per un uomo normale,
seguono delle traiettorie che Cartier-Bresson conosce. Se
questa eterna danza porta a delle figure significanti ed esteticamente
valide, lui sa coglierle. Lo fa all’Aquila come a Trastevere,
durante l’allestimento di una mostra in un museo o in
un viaggio asiatico, al cospetto del filosofo Jean-Paul Sartre
o dello sconosciuto trombettista Joe e della sua donna May.
La struttura delle sue immagini può far pensare all’applicazione
scolastica delle classiche regole della composizione. E forse
è possibile riscontrare anche a diversi anni di distanza
dei tratti comuni nei suoi scatti. Ma l’equilibrio,
quello che impedisce di osservare superficialmente anche una
singola fotografia, non è mai fine a sé stesso.
Non c’è immagine in cui il rapporto tra personaggio
e ambiente sia casuale, in cui uno sguardo sia in contrasto
con la personalità del soggetto ritratto, in cui qualcosa
sia fuori posto o superflua. E ogni immagine, non dimentichiamolo,
blocca un istante unico e diverso dal precedente e dal successivo.
Ecco l’istantanea elevata al rango di magica arte. Henri
Cartier-Bresson è morto il 3 agosto scorso. Ha cercato
per una vita la bellezza della forma affinché desse
la migliore espressione della sostanza. Trovandola e mostrandola
a chi la vuole cogliere. |